La gente non legge: di giorno ha da fare, la sera è stanca, i libri sono roba faticosa e superata. Meglio scrollare social, abbandonarsi alla scia algoritmata dei reel, lasciarsi lambire dal bagnasciuga dei profili: la cantante che abusa di soffiato ci smuove qualcosa, l’omone che scivola sul bordo della piscina ci smuove qualcosa, la influencer “sorpresa” in mutandine ci smuove qualcosa, la sfuriata dell’allenatore a metà tempo ci smuove qualcosa: sprofondati nella nostra obesità emotiva, ci è difficile immaginare come negli evi anteriori potessero sopravvivere in quello scomodo piattume.
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Franco ritira il suo libro di storia dell’arte: la sua prima mossa da neo-pensionato è stata quella di iscriversi all’Accademia delle Belle Arti. Gli chiedo com’è, e mi racconta che ha intrapreso questo percorso per cercare di completarsi. Ha sempre agito e ragionato in modo artistico, ma senza la convinzione e la consapevolezza che gli è venuta solo in tempi recenti. Sì, ma com’è, gli chiedo. Cincischia. Bella gente, mi fa. Giovani intraprendenti. In gamba, eh. E poi aggiunge che la maggior parte di loro si iscrive all’Accademia per le arti multimediali. E i pennelli? chiedo affermando. Ne nasce una di quelle conversazioni da boomer incontinenti che finiscono per fare i Tiresia sgoogolando. Citiamo De André come fosse il Deuteronomio e Orwell l’Enciclopedia Britannica. Ci sfoghiamo sul bersaglio “applicazioni digitali per le arti visive” come fossimo al poligono, e in un attimo è tutto un fioccare di domande iper-retoriche: come si può fare arte senza un pennello? Immateriale, incorporeo, fantasmatico: dov’è tutto questo sex-appeal?
Quello che noi zavorrati novecenteschi fatichiamo a capire è che i media sono ormai incorporati all’uomo. E l’arte non si tira indietro, come recita il sottotitolo di un testo sul magico potere della postproduzione digitale (“come l’arte riprogramma il mondo”). Erano gli anni 70 quando Giulio Carlo Argan individuava la crisi dell’arte nella crisi dell’oggetto come valore. Così è stato: dai libri ai dipinti, il virtuale si è preso il Parco delle Vittorie.
Speriamo almeno che il cloud renda più probabile il Paradiso.
Difficilmente la storia umana ha conosciuto un’epoca così omologata, allineata, conformista come questa. Quello che l’Era Postmediale sta sbozzando è un uomo a una dimensione, ma non nel senso marcusiano di “schiacciato dal Potere”: oggi non siamo schiacciati da un bel niente, se non da noi stessi e dal nostro sistema limbico. Gli anni 80 hanno immesso dosi massicce di ego, i 90 altrettante siringate di robotica e cibernetica, il tutto tenuto assieme dal dogma del godimento perenne. Il risultato è un uomo attento ai propri bisogni e con un’inedita voglia di esprimersi (secondo SignalFire, oltre 50 milioni di persone al mondo si considerano dei creator), un uomo insensibile a tutto ciò che è estraneo al suo sistema limbico. Ascoltiamo di madri annegate (con figlie tra le braccia) senza che il nostro fritto misto ci vada di traverso. Ascoltiamo passivamente un ministro insegnarci che Dante era di destra. Ascoltiamo con finta commozione dichiarazioni d’amore renderizzate. Viene spontaneo chiedersi che cosa ce ne facciamo di quella facoltà che ha salvato l’uomo per interi millenni, l’immaginazione: la teniamo nascosta nel taschino interno per tirarla fuori quando incrociamo un bambino? la coltiviamo ogni sera a colpi di Netflix? la alimentiamo con flebo piene di reel? Una volta, negli anni della contestazione giovanile, la si voleva addirittura al potere, ma oggi? Che fine ha fatto? Dove l’abbiamo cacciata? Quel giochino di domandarsi come verrebbe accolto oggi Gesù Cristo, facciamolo con i paladini dell’immaginazione: come verrebbe accolto oggi Gianni Rodari? Oppure Mario Lodi? O Italo Calvino? Troverebbero qualcuno che dà loro retta?
L’unica età della vita in cui l’immaginazione rimane intoccabile – diciamocela tutta, anche per esigenze commerciali – è l’infanzia, ecco: dentro quel cerchio magico trova ancora spazio, lì dentro tutti la valorizzano, danno il loro contributo, chi regalando i libri della Beatrice Alemagna, chi trasformandosi alla bisogna in Peppa Pig. Ma appena si esce dal cerchio, appena il bambino denuncia i primi segnali ormonali, si tira giù la serranda. Proprio così: finché non c’è vita ormonale, l’immaginazione gode di credito illimitato, la si lascia libera, rodariana, ma poi basta, ad un certo punto risuona il monito produci consuma crepa (Giovanni Lindo Ferretti) e buonanotte ai suonatori: da lì in avanti l’immaginazione viene confinata in una riserva indiana e tutto viene dirottato su ciò che smuove il sistema limbico e rimesta gli ormoni.
Che se ne fanno dunque le persone dell’immaginazione, in questa età delle macchine? (“nel mondo delle immagini, dove tutto il reale deve divenire immagine, a prezzo della sua scomparsa, il mondo stesso non è che un fantasma”: Baudrillard). Incanalata in mille rivoli, film, giochi, social, l’immaginazione probabilmente è tenuta viva, ma alimentata in modo postumano, non ci sono altre parole per descrivere quello che le diamo in pasto scrollando lo smartphone: le vite altrui, un reel, una story, cosa ci muovono dentro se non banali e bastardissime sensazioni? Una scarica continua di sensazioni di bassa lega, adrenalina allungata con pixel, istintualità evocata dall’effettistica, e in una manciata di decenni eccoci ridotti a schiavi dell’amigdala. La cosa più grottesca? che la nostra amigdala è in mano all’Algoritmo, cioè, lasciamo che a titillare la nostra amigdala sia una macchina. Shoshanna Zuboff parla di “esproprio dell’esperienza umana”.
Per capire dove stiamo tornando, vale la pensa ricordare che in principio eravamo solo sistema limbico. La parte di cervello razionale, quella pensante, è venuta dopo, e infatti si chiama neocorteccia: dal nome capiamo che si tratta di un’acquisizione, un ispessimento, una stratificazione (attorno all’originario nocciolo istintivo/emotivo) dove hanno preso posto memoria e linguaggio. Un’acquisizione che non ci è garantita per il futuro. E qui torno ai libri, perché niente inspessisce memoria e linguaggio quanto la poesia, la letteratura, l’arte. Forse per questo, qualche notte fa, ho sognato un Dante samurai, un po’ sciabola, un po’ endecasillabo, decisamente tarantiniano, impegnato in una strenua lotta contro la robotica, le macchine, gli algoritmi. Per questo l’ho proposto a Daniele, l’amico illustratore, ed eccone il risultato ad accompagnare questo pezzo. Quasi quasi, gli ho detto, potremmo farne un fumetto. Se qualche editore è interessato, abbiamo già il titolo: Dante Alighieri e l’infernale algoritmo.