Di tanto in tanto arriva in libreria un libro calpestato, nel senso letterale di un’indelebile sindone calzaturiera impressa sul frontespizio da una sneaker: che storia ci sarà dietro? come sarà accaduto?
A volte sembriamo ignorare le verità più semplici, come se in qualche modo mettessero a repentaglio la nostra intelligenza. Ad un certo punto cominciamo a guardare con sufficienza le fiabe (pur sapendo che Pollicino contiene già tutte le risposte ai quesiti della vita) e un bel giorno, senza accorgercene, ci ritroviamo in coda sotto il sole diretti in qualche posto inutile, col motore acceso e il condizionatore a palla, pur sapendo che lo scioglimento delle callotte polari innalzerà gli oceani.
Tra le verità più semplici dei nostri tempi, anche perché si presenta con icastica perfetta (una bilancia a pesi di quelle di una volta), c’è la contrappesistica: se un piatto sale, l’altro scende, se godiamo della comodità di vederci recapitare a casa in men che non si dica tutti i prodotti dell’universo, è perché qualcuno si fa un mazzo tanto al posto nostro.
Questo mazzo tanto si può tradurre nell’incisivo sintagma che tempo fa Luca Ricolfi ha coniato in La società signorile di massa: condizione paraschiavistica. Suddetta condizione riguarda circa tre milioni di esseri umani, in maggioranza immigrati, utilizzati per lavori marginali e sottopagati, la cui paraschiavitù ci permette di starcene stravaccati sul divano con un sacchetto di patatine in mano e l’occhio su netflix in attesa della consegna giornaliera di “beni” quali: ciabatte della squadra del cuore, rondelle in stock da 1000, annaffiatoi, pizze, phon per cani, vestitini lavapavimenti per neonati, t-shirt di taglia sbagliata, pompe da biciletta, sigarette elettroniche al mentolo raschiante, chiavette usb con la faccia di Trump, chianti australiano, frigoriferi da scrivania, videocamere lanciacrocchette per cani, sex-toy a forma di pinguino etc. Saremo mica schiavi di qualcosa? Ad ogni buon conto, con paraschiavismo non mi riferisco al simpatico operatore amazzonico che ogni volta ci lascia di stucco per l’impensata premurosità (unita a doti acrobatiche) nel farci trovare in tutta sicurezza il nostro bel pacchettino dietro le ante del soggiorno (“ma come faceva a sapere che le lascio socchiuse? Ma che gentileeee!!!), no, non è a questi garbati galoppini che mi riferisco. Loro rappresentano la faccia pulita e presentabile di un sistema che nella cosiddetta logistica nasconde la faccia sporca e impresentabile. È grazie agli uomini-automi della logistica, costretti ad orari di lavoro da haciendas e condizioni di lavoro ottocentesche, che ogni giorno possiamo avere comodamente a casa nostra (ecco a cosa è servito, da metà anni ottanta, il mantra dei piazzisti tv del pentolame che-ti-cambia-la-vita) imperdibili avvitatori a batteria, depilatori nasali rotanti, tazze con cover dei Take That, set di coltelli per ogni tipo di carne (sì, anche di mammut, cari teleascoltatori!), pezzi da ricambio della lavastoviglie degli anni 60, spazzole da water a prova di gastrointerite, tergicristalli in materiale antiruggine, e… libri.
Libri, è di questi che vorrei parlare, perché è in mezzo ai libri che è scoppiato il bubbone della logistica. Tutto è iniziato con la comunicazione da parte dell’editore che il nuovo attesissimo romanzo del noto scrittore tal dei tali sarebbe arrivato in ritardo nei negozi a causa di un’agitazione sindacale. E con questo intenso monologo si esauriva la parte di chi i libri li produce, perché affida ai distributori la faccenda della distribuzione, faccenda un tantino sporca. A Stradella, nella cosiddetta Città del libro, in quello che è considerato il crocevia della logistica libraria italiana, ha avuto luogo un lungo sciopero: tra crisi endemiche (si vendono sempre meno libri) e pandemiche (chi paga la crisi? i paria, ovviamente), centinaia di lavoratori hanno innalzato le barricate e i libri si sono fermati a pochi chilometri dal Festival di Mantova, a pochi chilometri dalle città che leggono di più, a pochi chilometri dal lazzaretto manzoniano, e l’ultimo attesissimo romanzo dello scrittore tal dei tali è rimasto bloccato in magazzino.
La cosa interessante è che i libri, scesi in terra dall’empireo del parnaso editoriale, una volta entrati nella fase distributiva (quasi a volersi arricchire di quella connotazione sporca e sudaticcia che fino a quel momento sembrano ignorare), iniziano ad essere “lavorati”, come recita il gergo tecnico di chi si occupa di stoccarli, spuntarli, incellophanarli, inscatolarli, si lascia insomma che sia la logistica a sporcarsi le mani, e fin qui nulla di male. Peccato che la Città dei libri ricordi gli slums londinesi del diciannovesimo secolo e i libri si “lavorino” senza prestare tanta attenzione ai diritti dei lavoratori. Può succedere che i lavoranti maneggino Lo spirito delle leggi alla tredicesima ora di lavoro, o che stocchino 1984 dopo essere stati redarguiti in vetero-linguaggio padronale, o che imperlino di sudore sottopagato la bellissima nuova edizione di Furore: contraddizioni neoliberiste o semplice ironia della sorte?
La Città dei libri è nata per una joint venture, quelle fusioni a freddo che in tempo di crisi servono a dividere rischi e utili ma che spesso si traducono in esternalizzazioni di esternalizzazioni, subappalti di subappalti, matriosche in cui il lavoratore diventa sempre più piccolo fino a scomparire dal mondo dei diritti. Il caporalato non è solo roba da raccolta di pomodori: anche i libri dello Strega arrivano sulle nostre tavole grazie allo sfruttamento paraschiavistico. Tra le aziende di distribuzione libraria e i magazzini di Stradella ci sono di mezzo cooperative evanescenti (che cambiano nome di anno in anno, che non mantengono promesse, che impongono condizioni lavorative che non si vedevano in Europa dai tempi di Charles Dickens), e quello che prima o poi doveva succedere, la protesta dei lavoratori, è successo.
Quanto vale oggi la logistica in Italia? Circa il 9% del PIL, per buttare lì una cifra, circa un milione di lavoranti per accennare alle vite umane costrette a sperimentare subappalti di subappalti di subappalti, contratti pirata, diritti e tutele calpestati da intimidazioni e soprusi. Si sono riviste squadracce aggredire i lavoratori (che protestano contro la Fedex) e cariche della polizia contro i S.I. Cobas; si sono intravisti immigrati sotto ricatto per il permesso di soggiorno, stipendi in valuta rumena, e, non a Stradella, ma in altra location dove regna il sub-di-sub-di-sub, sindacalisti investiti da tir.
Il lockdown è stata la benedizione per le consegne a domicilio ma si è rivelato l’inferno per chi smista pacchetti. La centralità della logistica nel capitalismo contemporaneo ha riportato le lancette indietro di un secolo e adesso una sindone sul frontespizio mi è un po’ più chiara. Cercasi Dickens disperatamente.
